Giulio Paolini: Un artista che si sente spettatore

“Niente prediche. L’arte non è né potrà mai essere politica”

Cinquant’anni di attività protesa al nuovo e ora predilezioni che arretrano di quasi tre secoli. Giulio Paolini si racconta

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Giulio Paolini, Doppia verità, 1995. Calchi in gesso, vetrina di plexiglas con lato riflettente, piedistallo bianco, 160 x 110 x 60 cm.
Barbara Bluhm-Kaul and Don Kaul, Chicago © Giulio Paolini. Foto Adam Reich

 

Un’opinione? Eccomi qui a dire (o tacere) quanto posso credere di credere (ovvero quello che credo di poter dire).

Non so perché ma ho sempre provato un certo imbarazzo nel considerarmi – come invece tutto o quasi sembra ormai confermare – un artista. Un curriculum invidiabile, titoli e risultati conseguiti non mi autorizzano ad avere alcun dubbio. Sono, o comunque sono ritenuto, un artista.

Sarà per la mancata formazione specialistica, la propensione a osservare più che a produrre o una pura questione di carattere… il fatto è che, al di là di tutto, mi sento più uno spettatore che l’autore che sono.

L’urgenza che ora mi coglie è motivata dal crescente sconcerto che provo e riprovo dinanzi all’assillante e grottesca preoccupazione espressa dalla quasi totalità del mondo dell’arte contemporanea per i destini del mondo (quello vero) e dalla necessità per noi di prenderne responsabilità in nome di una cieca venerazione della Natura. Quale vanità e soprattutto quale smisurato senso di superiorità e onnipotenza!

L’artista non è fuori “dal mondo” ma neppure “nel mondo”. Non vuole comunicare in forma diretta, in tempo reale e imporre la sua voce ma ascoltare, cogliere un’eco.

Che cos’è l’arte? Credo nessuno, né io né voi, possa certo rispondere, fissare a lungo quella sfera, quel punto luminoso che non abbiamo capito se è una stella, un pianeta o un satellite: se cioè la sua luce sia radente, naturale o riflessa. Parlo dell’arte senza poterne parlare.

Non si tratta soltanto di aggiustare la mira. Proviamo a immaginare: l’astronomo siede alla sua postazione quando si accorge che la distanza che lo separa dalle stelle è la stessa che ormai lo separa dalla Terra. Intento a scrutare la volta celeste, vaga nello spazio in assenza di forza di gravità senza più avere contatto col mondo, senza poter più inviare messaggi. Forse è il telescopio a essersi orientato nella direzione opposta… e il vero? Di vero non resta all’astronomo che il suo solo strumento, proprio lo strumento che dovrebbe consentirgli l’osservazione del vero.

Che cos’è l’arte?, torno a domandarmi. Paradossalmente l’ultimo a poter rispondere è proprio l’artista, il quale certamente sa cos’è l’arte ma non può formulare una risposta salvo affermare – apponendo una firma e una data – trattarsi di “opera autentica”. Ma un’opera, per essere autentica, deve dimenticare il suo autore.

L’arte al presente si affatica a trovare un’identità che nessuno è in grado di attribuirle. L’attenzione – voglio dire – è tutta rivolta ai dati di una sociologia dell’arte che incarna il vero e proprio peccato originale compiuto ai danni dell’essenza primaria, della dimensione unica, sempre uguale e sempre diversa, che anima la sfera dell’arte.

Giulio Paolini, Il cavaliere solitario, 2014.
Matita bianca e collage su carta nera, 46.5 x 66.5 cm.
Collezione privata, © Giulio Paolini. Foto Adam Reich

Credo occorra a questo punto fare chiarezza: se da un lato, non possiamo fare a meno dell’arte, è altrettanto vero che quella “verità” che abbiamo chiamato Arte può, anzi deve, fare a meno di noi. In altri termini voglio qui affermare la mia contrarietà a ogni tipo di partecipazione attiva o coinvolgimento, di interazione – come si dice – che oggi diviene una sorta di intervento complementare cui lo spettatore è chiamato a sottoporsi per esplicitare il significato di un’opera. Insomma, che l’opera non possa valersi della corrispondenza con l’osservatore è perché semplicemente l’opera non può concepire l’esistenza né tanto meno la presenza di chi la osserva.

Non posso evitare di leggere infelici espressioni di uso corrente come “fare arte”, “fare politica” o “fare sesso”… mi limito a dire che l’Arte fa da sé, non sa che farsene di noi e si manifesta senza interlocutori e intermediari. La sua parola – o il suo silenzio – sono quanto di più lontano dall’ambito di quella sconsiderata idolatria della comunicazione praticata dalle dilaganti kermesse di fiere e festival.

La parola dell’arte è il silenzio. Ritengo insomma superata la stagione delle prediche liberatorie: “la rivoluzione siamo noi” (ieri) o “salviamo il pianeta” (oggi). Nessuno dunque è in grado di “fare arte” perché è l’opera, essa stessa, ad accedere alla cifra segreta e immutabile della propria esistenza.

L’Arte non è né potrà mai essere politica. Ma cos’è, cosa sarà mai quell’immagine miracolosa capace di manifestarsi pur rimanendo segreta e di abbagliare lo sguardo innocente dell’osservatore? Del resto noi che guardiamo altro non vorremmo vedere se non quella luce, a rischio di perdere la vista. Di trovarci al buio impenetrabile dietro al sipario sulla scena dei nostri giorni.

Tutto ciò che tutti i giorni vediamo, leggiamo o ascoltiamo è una barriera sorda e opaca che non lascia trasparire il “non detto”, ovvero la parola dell’Arte.

“Art happens” – dice Whistler citato da Borges – “L’arte succede, accade. L’arte è un piccolo miracolo… che sfugge in certo modo all’organizzata causalità della Storia. Sì, l’arte accade o non accade; questo non dipende dall’artista.”

Insomma il senso (se di senso si può parlare) di un’esposizione non riguarda il chi o il che cosa, chi sia cioè l’autore e cosa significhino le opere esposte. Un’opera non concederà mai a nessuno, in nessun caso, il pieno possesso delle sue generalità e il suo autore sarà soltanto il primo testimone prescelto per compiere la delicata missione di custodire un insondabile segreto. L’opera riguarda invece il come e il perché, cioè le ragioni (sempre che ve ne siano) che determinano l’apertura del sipario della rappresentazione.

E’ la rappresentazione a dar nome alle cose, a mostrarle promuovendole a personaggi e figure che soltanto così riusciamo a riconoscere.

Giulio Paolini, Arianna abbandonata, 2015.
Collage su carta nera, 33 x 50 cm.
Collezione privata, © Giulio Paolini. Foto Adam Reich

Cinquant’anni di attività artistica, sempre protesa ad avvistare i segnali del nuovo, sono serviti paradossalmente a far arretrare le mie predilezioni di quasi tre secoli: oggi mi trovo a corrispondere con qualcosa che non mi è facile individuare e collocare nella tavola sinottica cui fare riferimento. “Et in Arcadia ego”: forse l’immagine più promettente, condivisibile, è un panorama di rovine classiche per la fascinazione che una tale visione procura ai nostri occhi, desiderosi di consolazione e riposo.

Terra, cielo, personaggi come figure esitanti fra tanta grandezza che ci sovrasta e ci relega al ruolo complementare di pellegrini o viandanti: luoghi posseduti da qualcosa di superiore, inaccessibile ai nostri passi.

“Quando è il presente?” si chiedeva Rilke e ancora noi ci chiediamo: dentro o fuori dal Tempo? Solo l’Arte, eccezione o testimone dell’eternità, è in grado di risolvere le contraddizioni della cronologia, l’illusione di un’apparenza. Ma se – come si dice – l’apparenza inganna, dove mai potremo volgere lo sguardo?

L’opera è lì, la vediamo ma non riusciamo a raggiungerla. Dunque, fissare in profondità fino a dimenticare il soggetto è la condizione necessaria per poter penetrare la superficie dietro alla quale scorgiamo il profilo sempre uguale e sempre diverso, di un modello ancora sconosciuto, capace però di risvegliare nella nostra memoria un’antica e rinnovata “conoscenza”.

Guardare un quadro significa vederlo a occhi chiusi, dimenticarlo – e quindi esserne osservati – come accade a chiunque riesca a trovarsi in condizioni normali (per esempio in un museo o a teatro) piuttosto che in condizioni accidentali (per esempio nella vita).

Prendere distanza da ciò che ci tocca, mettersi in viaggio senza muovere un passo. Guardare, vedere, dimenticare… Andata, ritorno, fine.

 

—Giulio Paolini

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